Torniamo su Parthenope di Sorrentino. Ci torniamo ospitando la recensione di qualcun altro, dando risalto che, al contrario della precedente, questa offre una chiava di lettura alternativa a voler indicare, ancora, la validità del concetto di opera aperta echiana. E questo è un dato che va riconosciuto e che fa ben sperare, in ogni caso, sulla salute della cultura.
Esiste una sfida, un’impossibilità, nel fondo creativo di Partenope, l’ultima fatica di Sorrentino e altrettanto impossibile sembra mettere in parole quello che sullo schermo è magistralmente rappresentato. Per tentare di bordare questo impossibile il regista nasconde costantemente quello che appare e scompare sulla scena. Liquidare il film come un fotoracconto di Napoli, dalla genesi ai giorni nostri, sarebbe a mio avviso un grossolano errore. Cedere alla tentazione di far cadere Sorrentino nel novero di quelli “che sanno costruire belle immagini, che gioco a fare effetto sullo spettatore” è una delle tante trappole che il film ci regala. Tentando di essere ordinato partirò da una domanda chiara ed esplicita: “ Chi è Parthenope ?”. Parthenope, la protagonista, è l’incarnazione della città, è Napoli messa a nudo dal regista, questo l’intento di fondo che potrebbe sembrare scontato e anche facile da raggiungere se non fosse per il conflitto, contrasto, la dissonanza che immediatamente si presenta agli occhi dello spettatore tra la città che vorremmo fosse rappresentata, la nostra idea di Partenope e la città che si offre ai nostri occhi. Allora in questo contrasto si consuma il film, per alcuni un vero dramma. Sorrentino ci offre la visione della città che non vorremo vedere, che non vorremmo esistesse, che è il punto di vista dell’antropologo. Per tutto il film ritorna l’interrogativo “Cosa sia l’antropologia” e, scartata immediatamente la risposta accademica, questa domanda aleggia per tutto il film per poi arrivare quasi alla conclusione, in maniera inaspettata, silenziosa ed enigmatica.
Perché in realtà, prima di conoscere la riposta, il regista ci fornisce la visione diretta di uno sguardo antropologico sulla città. L’antropologia è vedere, ed è difficile (vedere) perché è l’ultima cosa che impariamo dopo tutto il resto. Quindi quello che abbiamo visto per tutta la durata del film è proprio quel qualcosa che è venuto dopo “tutto il resto” o che è residuale di quel “tutto il resto”. “Tutto il resto” è l’amore, il desiderio, l’amicizia, le emozioni… Parthenope quindi è il ritratto antropologico della città. A questo punto la prossima domanda è “Com’è questa Parthenope ?” e qui la dissonanza è massima, retta da un abile gioco di coppie e antitesi che si inseguono. Parthenope è capricciosa, non è in grado di amare nessuno, chiede amore a chi non può amarla, l’autore inglese conosciuto a Capri, Chever: omosessuale non può amarla.
Quello che Sandro le offre è un gioco dei sensi, un passatempo, la notte trascorsa con Criscuolo, figlio della malavita, non tocca minimamente Parthenope, l’unico elemento che bilancia la presenza invasiva e massiccia di Parthenope è Raimondo. I due fratelli sono la contrapposizione chiave del film, sono i poli che permettono al film di girare. Parthenope è piena di sé, ha sempre la battuta pronta, Raimondo è fragile, Parthenope è sempre inconsapevole (non vuole sapere), Raimondo invece è consapevole. Raimondo è l’unico che ama profondamente Parthenope pur sapendo di non poterla mai avere e quando lei cede a Sandro, Raimondo non sopporta la brutalità della sua condizione. A Raimondo è affidata la frase più pesante del film “ Come si può essere felici nella città più bella del mondo?”. Raimondo è l’altra anima della città, quella consapevole, innamorata, fragile, pronta a pagare con la vita la consapevolezza dell’impossibilità di vivere nella “città più bella del mondo”.
Parthenope nasce nell’acqua, Raimondo muore nell’acqua. Parthenope risponde alla domanda su come sia morto suo fratello (fatta dall’antropologo) dicendo “si è lasciato andare” che è stato lo stesso invito che Raimondo aveva fatto a Parthenope per andare insieme a Capri. Raimondo soffia, come il vento sul mare, su Parthenope e, quando Raimondo smette di soffiare Parthenope resta ferma, immobile. La scansione temporale del film sembra assente nonostante ci siano date ben precise proiettate, ma al regista non interessa il tempo cronologico: interessa il tempo della città, il tempo dell’anima. Il tempo consuma, distorce, gli interni della casa di Parthenope dopo il suicidio di Raimondo, la giovinezza , l’epoca degli amori illusori, è finita.
Il cardinale Tesorone, figura a metà strada tra un mistico e un ciarlatano, ci spiega perché Raimondo è morto, grazie a una frase fulminea (il riferimento è sottolineato cin un taglio netto e l’immagine del ragazzo che si lascia cadere) “Quando sai tutto muori presto e giovane”. Raimondo è la prima vittima di Parthenope, lei non si prenderà mai la responsabilità dell’accaduto, resterà fedele alla sua essenza.
Parthenope è una città che non prolifera (il padre, spento dalla morte di Raimondo, chiede a Parthenope un nipote che non arriverà mai), non germina, non restituisce vita ma la consuma e la illude.
Cosa resta dopo l’illusione? Dopo tutte le battute ad effetto, dopo “tutto il resto”? Il desolante spettacolo di una realtà che mostra il precipitato della spettacolarizzazione, il residuo di ciò che si era. Cosa resta di Parthenope ? Il carrozzone elettrificato, avanzo dei festeggiamenti, in piena notte accolto dal riso vuoto di una Parthenope invecchiata, il ritratto di una Napoli ormai diventata “etichetta” da apporre su qualsiasi gadget si voglia vendere. Non c’è folla festante, non c’è umanità ma solo luci e clangore, una sorta di spettacolino che si ripete ad orario stabilito per una folla di paganti: questo è quello che resta dopo la giovinezza di Parthenope, la mercificazione di una città divenuta oggetto consumato da una massa di mani ed occhi voraci di luci e suoni.
" Io sono Parthenope e non mi vergogno mai."
In questa frase, pronunciata dalla bravissima Celeste Dalla Porta, e' racchiuso il significato del Film di Sorrentino.
Una citta' da sempre ostaggio della propria bellezza e senza vergogna pronta a scaricare sul fato e su chiunque, le ragioni del propri atavici mali.
Una citta' che si e' concessa al potere politico ma non a quello economico, alla camorra ed alla chiesa.
Una citta' a cui Dio ha donato il mare, non come contraltare al grande gigante dai grossi seni, ma come castigo per la propria atarassia. Un mare di acqua e sale, come anima malata e nascosta della grande ma oramai vecchia cultura Napoletana.
E di questo castigo se ne era gia' accorto Pino Daniele quando , in una delle sue prime canzoni cantava
" Chi tene 'o mare 'o ssaje porta 'na croce.
Chi tene 'o mare cammina ca vocca salata, chi tene 'o mare 'o sape ca è fesso e cuntento.
Chi tene 'o mare 'o ssaje nun tene niente...