Un doc non dismal per la dismal science: una critica eco-nomica ma poco eco-sistemica
Senza sapere percome e perché mi vedo tutta di filato e recensisco per voi la semisconosciuta serie di Amazon Prime: The giant beast thas is the Global Economy. Risalente a qualche anno fa (quindi già datata: l’economia corre come un treno… avanti o indietro che sia), è sufficientemente brillantemente condotta da Kal Penn, comico d’origine indiana (mi spiace ammettere che non ho mai visto le sue commedie demenziali) e che è stato anche nell’entourage di Obama (come tiene a mostrare una puntata sì e l’altra pure).
La serie è a puntate, slegate, avente ognuna un argomento.
La prima prosegue (esplicitamente) la situazione economica mondiale a seguito della crisi dei subprime del 2018, rifacendosi, non solo come argomento, al film La grande scommessa: anche qui, infatti, ogni tanto, ci sono siparietti comici che servono a veicolare i concetti più complessi o genuinamente economici in modo che anche chi vi sia completamente a digiuno possa (teoricamente) comprendere.
La prima puntata è dedicata, in particolare, al fenomeno dei paradisi fiscali e si riallaccia a quanto, in parte, già trattato da un altro film, Panama papers (assai meno riuscito del primo, purtroppo). Questa prima puntata è intrigante, specie durante le interviste condotte a Cipro (uno dei principali paradisi fiscali… anche Londra lo è ma, forse, sembrava brutto andare lì), e dona al tutto un piglio più documentaristico: sembra di rivedere il buon vecchio Michael Moore (ma che fine ha fatto? Non si è più ripreso dopo la fine politica di W. Bush Jr.?) e il rimpianto Morgan Spurlock.
Purtroppo già dalla seconda puntata il naso comincia a storcersi. A differenza di una serie di notevoli (e necessari) documentari sul tema, infatti (viene in mente The corporation, o The take - la presa che si avvaleva, addirittura, di Naomi Klein, o Surplus, o L’incubo di Darwin, o Diario del saccheggio), la serie appare, sotto la superficie ridanciana della satira, molto compromissoria e benevola verso un sistema, quello capitalista, in particolare statunitense, dimostrando la sua vera faccia di prodotto falsamente critico, convenzionale e fazioso.
La parte su Adam Smith, per esempio, è sembrata addirittura mendace da un punto di vista economico. La puntata che metteva in correlazione il livello di stronzaggine delle persone e la loro ricchezza era, anche in quel caso, interessante, intervistando anche persone notevoli, come Nick Srnick, l’autore di “Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro”, economista sostenitore dell’accelerazionismo nonché, come si sarà dedotto, del reddito universale (ed esplicitamente anarchico).
La china di altre puntate è persino scivolosa, come una certa qual stura benevola verso il meccanismo della moda e del consumo suntuoso della classe agiata, e che non tiene conto delle conseguenze di quest’ideologia edonista del benessere consumista sulle classi meno abbienti come, invece, si evince dal documentario One man and his shoes, che è una versione più ampliata e con più chiaroscuri del film Air sull’impero miliardario di Michael Jordan e le ricadute morali dello stesso (leggi tutti i ragazzi del ghetto che si ammazzano per un paio di scarpe volutamente prodotte in scala ridotta per incentivare il fenomeno del collezionismo).
La parte sulla contraffazione della moda e, in particolare, la spiegazione della mancanza di copyright (in quel campo come in quello del design o dell’arredamento, o della cucina) essendo beni utilitaristici (!), ovvero necessari, era un po’ incomprensibile e tutta da verificare. La demonizzazione della contraffazione e la sua riconducibilità al finanziamento del terrorismo è sembrata capziosa, più che altro, nell’omissione di tante altre, più probabili e ingenti, fonti di finanziamento politicamente meno comode per il ruolo di coinvolgimento degli U.S.A. Non mancano le bordate al Nordamerica, per carità: basti pensare all’accusa indiretta di lido nel quale andare a riciclare i soldi e, in base alla confessione di un terribile riciclatore professionista, la maggioranza delle attività commerciali di L.A. sono denaro sporco riciclato. Ci sono meccanismi interessanti anche se apparentemente ostili, come la puntata sull’importanza della gomma naturale e del fatto che basterebbe che un fungo che ha spazzato via questa coltura dal Sudamerica arrivasse all’Asia per far precipitare indietro la civiltà di 150 anni (no gomma, no pneumatici, no aerei), che sarebbe il motivo per cui non ci sono voli diretti fra Sudamerica e Asia.
Mi ha ricordato quel passo di Zio Paperone in cui lui, ancora cercatore minerario spiantato, si abbatte non avendo trovato oro né argento ma solo dell’inutile rame. Salvo scoprire che è arrivata l’elettricità ed è condotta proprio da fili di rame, da cui la corsa al nuovo conduttore su cui viaggia il nuovo cambio di paradigma tecnologico (e, quindi, a ruota quello economico). A proposito di rivoluzioni, fa un certo effetto sentire l’inventore McAfee, quello dell’antivirus, dire che prima della I rivoluzione industriale non c’era nessun evento rilevante per la civiltà umana. Serve una gran sfacciataggine ideologica per spazzar via tutto il pensiero umanistico (compresa la “scoperta” dell’America alla quale dovrebbe un minimo di riconoscenza) in un colpo solo… persino per uno statunitense. D’altra parte, sono gli stessi che ancora riescono a elogiare la catena di montaggio di Ford, criticando la persona, non il genio. Ford che è lo stesso della mitica Pinto che ha ispirato il lavoro assicurativo di Norton in Fight Club: episodio su cui uno studente pone una domanda a Milton Fridman (che dà una risposta da brividi), dimostrando che da allora a oggi si è perso lo stampo della critica e persino uno studente universitario vantava difese e una preparazione ideologica maggiori di una serie (che, comunque, è finanziata da Amazon ragion per cui… di cosa parliamo? Ma lo diceva la stessa Klein che il capitalismo ingloba le sue contraddizioni, rendendole, non solo, inoffensive ma lucrandoci sopra… proprio come il suo libro, stampato e distribuito dalle stesse multinazionali che criticava).
La puntata sulla morte lascia un po’ il tempo che trova e dimostra la stanchezza di una serie che non ha il coraggio di gettare il cuore oltre l’ostacolo (ok, è interessante, antropologicamente, che in Malesia non ci fossero riti funebri fino a trent’anni fa…). L’investimento in termini economici è, chiaramente, spaventoso e si vede e, in qualche modo, essendo hindi-discendente (credo si possa dire così), Kal riesce ad avere un occhio globale o, quantomeno, si sforza di spostarsi anche verso paesi non del nord del mondo (la Malesia, appunto, l’India, spesso, gli Emirati Arabi che trova gioco facile criticare, ma non tanto per lo schiavismo quanto per il rent seeking che falserebbe il gioco della perfetta concorrenza della mano libera del mercato… favola cui credono solo gli Americani, ormai…) ma, in generale, è un drago dai denti smussati e quando trova qualcosa di realmente interessante in cui affondare il morso, non va abbastanza in profondità da osare dare le risposte giuste anche quando lo sono le domande che pone (e non lo sono sempre).
Sicuramente un’occasione persa da questo punto di vista ma un modo di condurre inchiesta che ci insegnerebbe molto. Il problema della divulgazione economica, infatti, è pressante e preoccupante e i tentativi di trovare una narrazione appropriata che non sia soporifera sono ancora troppo radi ma qualcosa si sta intravedendo, per fortuna. Ben vengano simili esperimenti ma s solo se passano per una reale messa in discussione del sistema economico e della sua iniquità. In effetti, di economisti, in questa serie di documentari sull’economia, se ne vedono pochi. Per evitare di altri tipi di intellettuali che, probabilmente, ci darebbero le risposte più giuste e che sono, nuovamente, umanisti: non ci sono antropologi, psicologici solo uno (che ha studiato la connessione fra psicopatia e amministratori delegati… siamo al 4%). Non si parla di meccanismi di disuguaglianza, di turni di lavoro, di ascensore sociale. La puntata sull’AI è interessante, specie per il meccanismo di partecipazione Swarm e, probabilmente, è vero che stiamo avviandoci verso la IV rivoluzione industriale (con risvolti tutt’altro che facilmente prevedibili) ma, anche in quel caso, il comparto economico non è stato proprio toccato, così come quello dei migranti climatici e via dicendo. O la condizione femminile e il gender gap nell’economia. Una visione, insomma, assai poco eco-sistemica di questa eco-nomia. Ma, comunque, resta qualcosa di utile, anche solo da criticare, e da cui si esce sapendone di più su una materia che, già alla nascita, è stata definita dismal, ovvero scienza triste. Forse siamo riusciti a trovare il modo di renderla meno triste.
Ora non resta che criticarla per davvero…